Faccio servizio civile in un SAI, sigla che sta per Sistema Accoglienza Integrazione, gestito dalla Cooperativa Sociale Il Millepiedi. Per coloro che vi sono ospitati, si tratta dell’ultimo passaggio prima dell’autonomia.

Per la maggior parte i beneficiari sono ragazzi di età compresa tra i 18 e i 30 anni, con storie agghiaccianti alle spalle. Quelli che finora ho conosciuto io provengono dall’Africa o dall’Asia centro-occidentale, cioè da Paesi come Niger, Sierra Leone, Somalia, Afghanistan, Pakistan ed altri ancora.

Circa la metà di queste persone ha abbandonato casa propria a causa di attacchi o minacce perpetrati da gruppi di integralisti islamici. C’è chi ha perso il padre, la madre, fratelli o sorelle, chi la famiglia intera, amici. Un ragazzo burkinabé è fuggito quando i jihadisti lo hanno messo di fronte a una scelta: “O lavori per noi, o muori”. In brevissimo tempo se n’è andato, forse la notte stessa. Si è diretto a nord ed ha attraversato la frontiera col Niger. Da lì, passando dalle mani di un trafficante di esseri umani all’altro, è arrivato in Algeria e infine in Libia. Ogni tappa comportava una prigionia, dalla quale poteva uscire solo attraverso un pagamento, o meglio un’estorsione, che doveva arrivare dalla famiglia o a cui doveva provvedere lui stesso lavorando. Finalmente imbarcatosi per tentare la traversata del Mediterraneo, ha potuto mettere piede a terra solamente una settimana dopo che il suo barcone è stato soccorso in mare dalla nave Ocean Viking delle ONG SOS Mediterranee e Medici Senza Frontiere.

Parlando con lui, che ha compiuto i 18 anni in Italia, mi ha spiegato che quando ha lasciato il Burkina Faso non pensava all’Europa. È stato messo su un autobus da sua madre, che non lo voleva vedere semi-schiavizzato da un gruppo criminale che usa la religione come facciata. Se n’è andato “soltanto” per avere salva la vita e per avere salva la vita ha proseguito il suo viaggio verso nord, finché in Libia qualcuno non gli ha proposto di imbarcarsi, di tentare la sorte.

La sua, come quelle di tantissimi altri, è semplicemente la storia di una persona che cerca condizioni di vita migliori, ed è costretta a rivolgersi a dei biechi trafficanti a causa del fatto che i governi europei non rilasciano visti di viaggio a chi non può fornire determinate garanzie di natura economica. La cara vecchia discriminazione di classe.

È per conoscere di persona storie come questa e per tentare di capire cosa si può fare per migliorare la gestione della cosiddetta “emergenza immigrazione” che ho fatto domanda presso il SAI. Inoltre, grazie alle formazioni, mi sono scoperto un grande sostenitore del servizio civile: essere al servizio dell’intera comunità italiana, allo scopo di “dedicare alcuni mesi della propria vita al servizio di difesa, non armata e non violenta, della Patria, all’educazione, alla pace tra i popoli e alla promozione dei valori fondativi della Repubblica italiana” (dal sito del Servizio Civile), è qualcosa in cui credo fortemente al fine di partecipare alla creazione di una società globale più giusta e più equa. L’esperienza che sto facendo, assieme ad altre migliaia di coetanei, ha rafforzato e continua a rafforzare questa mia convinzione, che ogni tanto si sente schiacciata dallo sconforto che non tutti sembrano collaborare agli sforzi per rendere il nostro mondo un luogo ospitale verso chiunque.

Tornando al SAI in cui faccio servizio civile, qui gli ospiti sono tutti in possesso di un permesso di soggiorno per protezione umanitaria, perciò possono finalmente lavorare, che è il loro obiettivo principale, sia per mantenersi, sia perché spesso devono mandare parte dei profitti ai loro famigliari rimasti nel Paese d’origine. Purtroppo alcuni non hanno quest’ultima necessità, dato che di famigliari non ne hanno più.

L’accesso al mondo del lavoro non è tuttavia lo scopo primario del SAI, il quale richiede che la priorità sia data all’apprendimento della lingua italiana. Gli ospiti affiancano perciò il lavoro, o la ricerca di un lavoro, alle lezioni di italiano, e queste sono anche uno dei miei compiti principali. A questo scopo è fondamentale, oltre allo studio formale della lingua, anche e soprattutto la pratica ed infatti parte del mio tempo di servizio lo trascorro parlando con loro, sforzandomi di pronunciare le parole nella maniera più chiara e comprensibile possibile. Chiacchierando, ho la possibilità di fare domande sulle culture e sui Paesi di provenienza dei ragazzi, così come posso io fornire loro spiegazioni sugli usi italiani, cosa che in alcuni casi mi ha richiesto di approfondire meglio la mia stessa conoscenza della società in cui sono nato. Inoltre, io che sono un patito delle lingue trovo un profondo piacere nel trovarmi in situazioni in cui posso ascoltare conversazioni delle quali non comprendo assolutamente nulla!

Un’altra cosa che faccio sono gli accompagnamenti nei diversi servizi dislocati sul territorio, grazie ai quali ho potuto constatare che la lentezza dovuta a certa nostra burocrazia atterrisce ed esaspera persino persone provenienti da Stati in guerra o nei quali il servizio pubblico non è precisamente tra i migliori.

Molto importante è anche far conoscere ai ragazzi la città di Rimini, della quale spesso sanno solo dove si trovano la Questura, la stazione e la scuola di italiano. Quando svelo che l’Arco d’Augusto e il Ponte di Tiberio sono stati costruiti duemila e più anni fa, l’incredulità sui loro volti diventa quasi tangibile. Credo che permettendo loro di capire gli aspetti storici e sociali della nostra realtà, essi possano essere più motivati a non considerare l’italiano unicamente come un mezzo per avere maggiori possibilità lavorative, bensì anche come un mezzo per creare relazioni sociali con la comunità locale.

Ciò che mi guida durante l’esperienza di servizio civile è la domanda: “Se mi trovassi in un Paese straniero in cui non conosco praticamente nessun autoctono e di cui parlo poco la lingua, come vorrei essere trattato?”. Per questo motivo cerco di instaurare con loro una relazione di amicizia, o perlomeno di fiducia, nella quale ciò che finora ha plasmato la loro persona (la cultura di provenienza, la lingua materna, la religione) non sia considerato come un complesso ingombrante e non adeguato alla vita in Italia, bensì come una ricchezza, un altro esempio di come l’essere umano sappia creare infiniti universi di significato.

Elia Cavuoti

Operatore volontario presso Coop. Soc. Il Millepiedi